Francesco Zenzale - “O Signore, fammi conoscere la mia fine e quale sia la misura dei miei giorni. Fa’ ch’io sappia quanto sono fragile” (Salmo 39:4).
Se consideriamo che ciò che rende piacevole una persona è la sua nobiltà, lealtà e onestà d’animo, potremmo dedurre che il segreto della vera personalità consiste nella capacità di coltivare le virtù umane. Sembra semplice ma non lo è, perché giornalmente ci confrontiamo con quella parte nascosta di noi stessi di cui ci vergogniamo: la nostra fragilità.
Non si parla volentieri delle proprie fragilità perché si ha paura dell’altro, di essere manipolati o compatiti. Nessuno ama essere commiserato, se non colui che della commiserazione fa uno stile di vita tale da intrappolare chi lo circonda. La paura di parlare della propria fragilità spesso è anche motivata dalla paura di non essere creduti, compresi, accettati, e di rimanere soli.
Spesso la fragilità nascosta, contrassegnata da forti emozioni come il senso di abbandono, la frustrazione, ecc., esplode in modo improprio, con violenza verbale e delle volte fisica. Ma la fragilità, in tutta la sua drammaticità, si manifesta con la morte. La percezione della fine è dentro di noi, è il marchio del peccato, della nostra caducità. Ciò significa che la fragilità è dentro l’anatomia dell’uomo, fa parte della sua sostanza costitutiva che non è di ferro, ma di carne che si decompone. L’uomo porta i segni della fine e c’è un momento in cui, di fronte alla morte, si vorrebbe contare su qualcuno che affermi di essere presente.
Scrive lo psichiatra Vittorino Andreoli: “La fragilità non è un difetto, un handicap, ma l’espressione della condizione umana. Non è un difetto, una menomazione o una condizione che comunque la pone sul piano del patologico. È semplicemente una visione del mondo che si lega all’esistenza, non al singolo che ne è parte. È la visione del proprio essere nel mondo, è la percezione che deriva dal dolore, dal senso del limite”.
Il senso del proprio limite pone fine al delirio di onnipotenza e ci aiuta ad acquisire un cuore saggio, ad avvicinarci all’altro con empatia tale da trasformare la fragilità in forza che unisce, che accomuna gli uni e gli altri che pur nella fragilità, nella grazia di Dio, sono in cammino verso il cielo.
Signore, “insegnaci dunque a contar bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio” (Salmo 90:12).
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Carla De Biase (giovedì, 05 aprile 2012 13:35)
Riconciliazione. Ne ho sentito spesso parlare.
Ma parlarne solamente non servono.
Se non seguono i fatti per arrivare alla riconciliazione, che sia con Dio o che sia con gli uomini e le donne, è solo aria fritta. Un esercizio dialettico di perbenismo di facciata. E siccome qualcuno disse che dai frutti si vede se siamo suoi seguaci, impegniamoci per dare frutto e non solo per agitare le chiome al vento.
chiesa-battista-t-valle27 (giovedì, 05 aprile 2012 15:53)
concordo Carla.Ma anche parlarne serve... chissà che qualche seme nell'animo delle persone lo mettiamo e cresce?
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